Cannabis, una variante genetica aumenta il rischio di dipendenza

Sei milioni di italiani consumano cannabis, ma non tutti sperimentano lo stesso identico effetto. Fumare cannabis può essere un’esperienza positiva, rilassante o energizzante per qualcuno, così come può causare episodi di ansia, allucinazioni e paranoia in qualcun altro.

Perché ogni persona reagisce in modo diverso e quali fattori determinano se l’esperienza sarà positiva o negativa?

Per la maggior parte, è una questione genetica.

Le variazioni nel metabolismo del THC, il composto chimico responsabile delle sensazioni di euforia, spiegano perché la cannabis fa effetto in modo diverso.

È la conclusione di uno studio pubblicato su Addictive Behaviors dai ricercatori dell’Università della Pennsylvania, in collaborazione con le Università della Florida e del Colorado. I ricercatori hanno esaminato gli effetti della predisposizione genetica e del sesso sul rischio di sviluppare il disturbo da uso di cannabis, o CUD, che può creare dipendenza. Queste varianti genetiche potrebbero anche essere un bersaglio per nuove terapie.

Nonostante la cannabis crei meno dipendenza di altre sostanze, compresi alcol e sigarette, un uso prolungato può causare il CUD (cannabis use associated disorders), che colpisce una persona su cinque (ma si stima che il 30% presenti almeno uno o più segni di CUD). Questo disturbo si manifesta con sintomi tipici da dipendenza: astinenza, desiderio di consumare cannabis, difficoltà nel ridurre l’uso e sviluppo di comportamenti rischiosi pur di procurarsi la sostanza. Nei casi più gravi, i soggetti non riescono più a limitarne l’uso, e anzi hanno bisogno di consumare più sostanza per ottenere gli stessi effetti.

La percezione del rischio tra i consumatori, soprattutto ragazzi, è bassa: solo il 20% ritiene che sia rischioso fumare cannabis regolarmente, mentre per il consumo occasionale la percentuale scende addirittura al 6,4%. Molti giovani che sviluppano il CUD iniziano a fumare cannabis proprio durante l’adolescenza, senza essere consapevoli dei potenziali danni sulla salute. La cannabis, anzi, continua a essere considerata una “droga leggera”, nonostante le principali autorità sanitarie boccino questa definizione.

Il responsabile dell’effetto psicotropo della cannabis, e anche dei sintomi da dipendenza, è il tetraidrocannabinolo (THC). Il suo metabolismo, ovvero il processo mediante il quale il THC viene scomposto in componenti più piccole (psicoattive e non), può essere influenzato da variazioni genetiche negli enzimi.

I geni incriminati sono quelli che codificano per la famiglia dei citocromi P450, i principali responsabili del metabolismo di farmaci e tossine di origine esterna e dei prodotti di scarto dell’organismo. Circa una persona su quattro presenta uno di due alleli, CYP2C9 e CYP3A4  associati a una minore attività di questi enzimi, che scompongono anche il THC. Queste persone sono definite “metabolizzatori lenti”, perché hanno bisogno di più tempo per eliminare tutto il principio attivo, e di conseguenza aumentano anche sia l’intensità sia la durata degli effetti della cannabis.

Variazioni nel metabolismo sono già state associate a un aumento del rischio di sviluppare una dipendenza per altre droghe, ma non ancora per la cannabis. Ora, lo studio dell’università della Pennsylvania ha dimostrato che i metabolizzatori lenti sono in effetti più a rischio di sviluppare il CUD, con differenze significative tra uomini e donne.

Per lo studio, i ricercatori hanno reclutato 38 giovani adulti con età compresa tra 18 e 25 anni con CUD e 16 con un disturbo da uso di sostanze non CUD. Questa fascia di età è stata scelta perché la probabilità di sviluppare il CUD è tre volte maggiore rispetto agli adolescenti o agli adulti sopra i 26 anni. “Il cervello è ancora in fase di sviluppo e questo può essere un momento chiave per l’intervento”, spiegano i ricercatori.

Il sangue dei partecipanti è stato testato per determinare la presenza di varianti genetiche negli enzimi P450 che metabolizzano il THC. In base alla loro variante genetica, i partecipanti sono stati  quindi classificati come metabolizzatori normali o lenti di THC. I ricercatori hanno quindi correlato il metabolismo con gli effetti soggettivi, positivi o negativi,  riportati dai partecipanti in un questionario.

Lo studio ha mostrato che le giovani donne con CUD avevano più probabilità di essere metabolizzatori lenti di THC rispetto alle donne con altri disturbi da uso di sostanze (non CUD). Tra i giovani adulti maschi, i metabolizzatori lenti riportavano più effetti negativi durante l’uso iniziale di cannabis, come sonnolenza, pigrizia e difficoltà di concentrazione. In generale, i partecipanti di entrambi i sessi che sono stati categorizzati come metabolizzatori lenti di THC hanno riferito più effetti negativi durante l’uso di cannabis.

I risultati confermano che ciascun consumatore di cannabis vive una sua personale esperienza con questa droga: positiva o negativa dipende da un insieme di fattori “soggettivi”, tra cui la frequenza d’uso e lo stato d’animo al momento dell’assunzione, ma anche da fattori non modificabili, come il sesso o la predisposizione genetica.

Su questa materia però c’è ancora troppa poca consapevolezza, soprattutto durante l’adolescenza, che è anche l’età in cui la maggior parte delle persone inizia a consumare la cannabis. Se è fondamentale quindi educare i giovani alla comprensione dei fattori di rischio per il CUD, è anche vero che la maggior parte delle persone non si sottopongono a test genetici per queste particolari varianti genetiche

I risultati di questo studio possono comunque aiutare a migliorare le opzioni di trattamento per le persone che lottano con il CUD.

«Il nostro studio apre nuove ipotesi e opzioni per esplorare i farmaci che potrebbero modificare il metabolismo del THC come potenziale trattamento per il disturbo da uso di cannabis».